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SCRIVO A PASOLINI

Prefazione

«Il mondo non mi vuole più
e non lo sa.»

(Pier Paolo Pasolini)

Degli anni dell’università, ricordo con chiarezza molti esami ma in particolare la tematica di uno, il corso era “Letteratura italiana moderna e contemporanea” e verteva solo su Pier Paolo Pasolini. A pensarci oggi, mi tornano alla mente diverse situazioni – universitarie e culturali, di più ampio respiro – in cui Pasolini “spuntava fuori” in contesti di divulgazione che allora mi davano la sensazione di “qualcosa d’insolito”. Oggi, leggendo l’opera di Mauro Giovanelli, questo pensiero si è fatto improvvisamente chiaro e, con un po’ di pazienza da parte del lettore, proverò a spiegarlo meglio.
Il Professore ordinario – che, fra l’altro, scriveva anche per “L’Osservatore romano” – cuore nobile, fine e appassionato letterato, a una lezione disse, quasi sconsolato, che dopo Pasolini non esisteva più nulla; aveva da poco presentato un testo sul grande poeta in cui passava in rassegna alcune opere letterarie del Maestro collegandole a quelle cinematografiche, in particolar modo soffermandosi su “Petrolio”, ultimo, discusso, postumo e incompiuto lavoro.
Ricordo con nitidezza la sua pubblicazione, le sue lezioni, e per come mi arrivasse, giovane studentessa, quella che ora potrei chiamare la passione degli incompresi, ossia il cercare di trasmettere un amore – a tratti venerazione – non tanto per un autore e l’eredità che ha lasciato, quanto per le idee, i messaggi che percepivo fossero stati recepiti dal docente alla maniera di un’illuminazione che, a sua volta, avvertiva l’esigenza di diffondere quale discepolo del profeta. Questo pensiero mi sembrò strano, forse eccessivo, non avevo ancora gli strumenti per materializzarlo diversamente (e correttamente). Teniamolo però un attimo da parte, ci tornerò.
Più avanti diedi l’esame, robusto e altrettanto bello, di “Storia e critica cinematografia”, ed ebbi la fortuna di sostenerlo con altro professore emozionato e profondamente amante del suo incarico allo stesso modo del mio primo insegnante.
Tra i tanti libri e documenti da visionare era contemplato il monografico su Pier Paolo Pasolini, con le pellicole “La Ricotta”, “Accattone” e “Teorema”. Questi tre film, in diverso modo, mi avevano scosso, lasciandomi una profonda malinconia, percezione di perdita, anzi di smarrimento, come di abbandono, ed avevo faticato a lungo non tanto a capire, quanto a convincermi che potesse essere reversibile, cioè guarire, per come ero profondamente certa, all’epoca, che il riscatto, l’opportunità e il miglioramento fossero veramente alla portata di tutti. Un parallelismo mi ha fatto realizzare, più di quindici anni dopo, che non era il riscatto che dovevo cercare, ma un senso umano vero, che invece profondamente credo possa esistere di là dal contesto sociale. Ci sono arrivata con la visione di “Non essere cattivo” (2015) di Claudio Caligari, film dove, per tanti aspetti, ho ravvisato un filo di connessione proprio con “Accattone”, e non solo per gli scenari di una diversa Roma di borgata.
Questo apparentemente inutile preambolo, in realtà, dà la dimensione di quanto il testo di Mauro Giovanelli mi abbia colpito accompagnandomi in una riflessione più sincera e matura. Leggendo le sue pagine, infatti, mi è arrivato un dialogo intimo ed emozionante non solo con un letterato, un uomo, bensì con un’entità di pensiero; ho avuto l’esatta sensazione che Mauro Giovanelli arrivasse a Pasolini, ne oltrepassasse la carne e potesse scorgere, come con un terzo occhio in grado di percepire realtà situate oltre la visione ordinaria, un valore nascosto del Poeta, un moto interiore che, attraverso l’Autore, non smette di vivere per tutti.
Lo vedo perché Pasolini, tra le sue parole, non è semplicemente capito o assimilato, neanche solo amato, è scrutato, analizzato, interrogato, contraddetto. È così che si costruiscono i veri e proficui rapporti, non accettando passivamente ma mettendo in dubbio, confrontandosi senza dogmi precostituiti, dunque attraversando a piedi nudi quella landa d’incertezze che abbiamo di fronte.
Ed ecco allora che prende vita un libro che accompagna il lirismo più puro a una prosa riflessiva, arguta, in cui opere diverse procedono su un binario comune, a costruirne uno immaginario di cooperazione divulgativa, perché se è vero che leggendo Pasolini una cosa mi è stata da subito chiara, ossia l’intento non solo di parlare di sé, bensì farsi portavoce, di tanti, dei molti, e di un mondo che si celava nel buio del non visto che, per quanto inesistente agli occhi della borghese quotidianità, prosperava in un mutismo, spesso sofferente, ma altrettanto carnale e viscerale nella sua apparente staticità.
È un dialogo, quello che si viene a creare, ininterrotto, un rapporto speciale che alcuni hanno la fortuna di provare e trovare in un’anima con cui si coglie una sorta di affinità elettiva e che, il più delle volte pur senza saperlo, riesce a dare un’interpretazione al nostro sentire, alla nostra volontà (e necessità di comprensione).
Infatti, Mauro Giovanelli scrive:

«Credo di essere entrato nella mente di Pasolini per il semplice fatto che nel momento in cui ascolto la sua parola essa s’incastra perfettamente con il mio ragionare.».

E ancora:

«Ho scritto molto su Pasolini, pure “Io credo in Pasolini” quasi fosse una preghiera, “Ultimo Messia” per elevarlo al rango (laico) che gli compete, altre cose che tengo per me poiché quando gli parlo mi sento libero e non legato a stereotipi, modelli, stampi. Che cosa pagherei per fare una chiacchierata con lui.».

L’intera opera è ricca di questi momenti che elevano ulteriormente il lirismo che si cela anche nella prosa più cruda, sprezzante, per quanto sempre raffinata, poiché il messaggio che Mauro Giovanelli vuole comunicare è di ben più ampio sguardo: È togliere il poeta dalla teca degli sterili idolatranti di Pasolini – sul cui agire per divulgarlo e comprenderlo molto ci sarebbe da dire – e questo proprio per liberarlo e restituirci un’immagine affrancata, non quella iconoclastica che l’ha sostituito, in particolare dopo la sua morte, tanto discussa ma certamente per i motivi sbagliati, dimenticando – e ci verrebbe da dire volontariamente – tutto un lavoro importante del poeta originario di Bologna ma friulano nelle viscere, che esula da congetture e pettegolezzi.
Più avanti:

«Molti scrittori, direi un’infinità, si sono dedicati a scrivere in merito alla morte di Pasolini, mille e più mille sono le ipotesi al riguardo, comunque l’alone di mistero che circonda questo grave delitto persiste fitto sull’immagine del suo cadavere martoriato. Fra l’altro non si è mai arrivati a qualcosa di concreto. Invece nel mio libro considero il suo massacro ineluttabile, scritto nelle pagine del destino, cioè “dovuto” proprio per elevare la sua figura e il suo impegno sociale al rango di Messia, l’ultimo, un predestinato al martirio, come Gesù di Nazareth e altri profeti.».

Ecco che torniamo a quella riflessione iniziale sul riconoscere un profeta. Credo che profeta possa significare molte cose, che vanno oltre il senso meramente religioso, è quella capacità di essere guida pur senza saperlo e volerlo, perché con la parola, la propria arte e con la propria esistenza si diventa faro, messaggio assoluto, e credo sia questo l’elemento che Mauro Giovanelli riconosce in Pier Paolo Pasolini, perché avvertiamo che il poeta sia vissuto e continua a essere tra noi per tramandare un ufficio importante, non potendo tenere scisso il suo piano quotidiano da quello emozionale e da quello creativo. È una fusione centralizzante che, credetemi, non è scontata né di facile gestione. Nelle parole accorate che in più punti l’autore rivolge allo scomparso scrittore, c’è proprio questa immensa forza prorompente, questo cercare, scavare senza sosta, e sempre al massimo della volontà, perché essa ci permette di lambire lidi sconosciuti, di amare nella sofferenza e di farne tesoro, bellezza, insegnamento e… tenerezza.

Infine:

«Dunque tu chi sei Pasolini? Perché ti soffermi a declamare una tragedia tra le quinte di un palcoscenico inesistente? Quanto sono tese le tue corde? Dove potrebbe arrivare la sensibilità di cui ti nutri a ogni istante?».

Concludiamo proprio con questo climax interrogativo perché non potrebbe essere altrimenti, perché solo nel porsi domande continuamente – domande vere e spesso scomode – non spegneremo mai la fiamma della vera conoscenza.

Pamela Michelis

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Alessandro Arvigo (Alex), Palermo (Italia), prefazione a “IL LEGGÌO A NOVE POSIZIONI” 1a Edizione – giugno 2019 – Vertigo Edizioni srl – Roma – ORA IN COMMERCIO EDIZIONE 8 PUBBLICAZIONI “ILLEGGìOANOVEPOSIZIONI” SU ILMIOLIBRO.IT

Yuzaf non è asceso al cielo come c’è raccontato. In cerca di una risposta impossibile, almeno quanto lo sarebbe stato il dubbio che lo avrebbe colto durante il supplizio, lamentando l’abbandono del Padre, ha invece continuato a vagare tra le dimensioni del reale e del fantastico. Questa la sua missione, la croce alla quale sembra condannato dalla stessa natura di cui è composto, che gli fa incontrare altri “inverosimili” come lui: Corto, Srinivasa, Ramòn, Judex, dando vita a una ratatouille filosofica in salsa spirituale, insaporita con un melting pot delle migliori spezie antropologiche, raccolte dall’Autore ai crocevia della vicenda umana, nella sua mente, lungo le sconfinate praterie dell’investigazione fantastica.
Bene e Male, Divino e Umano, sono le invisibili sbarre della gabbia di Mānī che imprigionano il pensiero di Yuzaf nella speculazione dell’Oltre, lo costringono a surreali dialoghi con personaggi della storia e della fantasia che cucineranno a fuoco lento le convinzioni del lettore fino a dissolverle con la sola spiegazione alla nostra portata.
Le molecole letterarie dell’opera sembrano formate da atomi privi di legami, gli elettroni saltano dall’orbita di un nucleo all’altro, collidono, rilasciano quanti di energia che riempiono di tracce luminose l’etere della narrazione: preziose indicazioni che, per il lettore attento e motivato dalla ricerca terrena e spirituale, rappresentano la segnaletica del sentiero che conduce a concepire l’inspiegabile.
La ricostruzione storica e filosofica della religione sotto l’aspetto di “urgenza esistenziale” è accurata, onesta, priva d’intenzionalità alcuna di negare o affermarne l’esattezza, lasciandoci liberi di manovrare il leggìo a nostro piacimento per interpretare i manoscritti che su esso si alternano e incrociare lo sguardo del topo al fine di rispondere come possiamo a una domanda priva di senso: “Qual è la verità?”.
Alessandro Arvigo (Alex)

Premessa dell’Autore:

Questo racconto è la naturale prosecuzione di “Ecco perché Juanita”, antologia elaborata nel 2012, certamente originale nella composizione al punto che non trovavo termini adatti a definirla. Per descriverne la “costruzione” decisi di utilizzare il verbo “comporre” vale a dire “mettere insieme varie parti allo scopo di costituire un tutto organico” ovvero “produrre, realizzare un’opera di carattere letterario o artistico in generale”. Conclusi che il termine più adeguato a designarla fosse proprio “libro” intendendosi con tale parola “volume di fogli cuciti tra loro, scritti, stampati o bianchi”. Desidero ricordare che la parola “bibbia” significa insieme di generi letterari diversi. Non è casuale che “biblia”, dal greco “biblos” (corteccia interna del papiro che cresce sul delta del Nilo utilizzata per produrre materiale scrittoio) sia un plurale che indica l’insieme di opere scritte e narrate (nella Chiesa greca dell’epoca di Giovanni Crisostomo si cominciò a usare l’espressione “Ta Biblìa”, che significa “I libri”). Infatti, il Vecchio e Nuovo Testamento sono compendi di elaborati vari per origine, genere, compilazione, lingua e datazione, prodotti in un periodo abbastanza ampio, preceduti da tradizione orale difficile da identificare, racchiusi in un canone stabilito dagli inizi della nostra era. In parole povere la prima grande raccolta, copiatura e forse pure sofisticazione della storia.
Tornando a “Juanita” dico che l’idea della sua realizzazione s’insinuò nella mia mente quando decisi di riunire diversi e preziosi frammenti della letteratura (sottotitolo “arabesco letterario”) di circa cinquanta autori e un centinaio di brani e citazioni disponendoli all’interno di una narrazione secondo il mio gusto. Occorreva solo la base di appoggio. Quale migliore “cronologia” potrebbero regalarci altri capolavori che non siano “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” del grande Saramago, seguito da “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov per agganciarlo a “Il Procuratore della Giudea” di France e concludere con “Il Grande Inquisitore” di Dostoevskij? Nessuna, un’avventura lunga 1700 anni.
Saramago descrive la vita di Gesù con un’autenticità da lasciare senza fiato, ineguagliabili lo stile e la prosa. Nel suo Vangelo neppure è sfiorata la personalità di Ponzio Pilato perché marginale al messaggio che l’autore ci ha compiutamente trasmesso. Per approfondirne la figura siamo quindi costretti a immergerci nelle strabilianti pagine di Bulgakov dove il procuratore della Giudea è assalito dal rimorso per una condanna decretata suo malgrado; la collera verso se stesso lo dilania, realizza di essere entrato nel mito dalla porta sbagliata e la sua ignavia (qui ci sarebbe da discutere) lo inchioderà per sempre nella penombra del porticato, dietro la brocca del servitore che versa l’acqua sulle sue mani sudate. Che ne sarà di lui? Allora lo seguiamo nell’epico “Il procuratore della Giudea” di Anatole France dove, vecchio e dolorante, si reca ai Campi Flegrei per curarsi la gotta che lo tormenta. I tempi del fasto e del potere li ricorda con il fedele e ritrovato Lamia che, riferendosi al Cristo, gli chiede: “Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?” ed egli “Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo”. Non ricordo… Perché? Amnesia senile? Inconscia rimozione di una rievocazione ostica? Menzogna? Indulgenza divina? Non lo sapremo e il Gesù de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskji, che chiude il mio saggio, non dice alcunché in proposito. Essendo stato vano il sacrificio estremo, Egli torna in questo mondo per riparare l’errore sennonché, riconosciuto e incarcerato dal Grande Inquisitore, non pronuncia una sillaba durante l’eccitazione verbale dell’aguzzino che a sera si reca nella cella per comunicargli la condanna al rogo. Il confronto tra i due si trasforma in un delirante monologo del prelato.
Che cosa rappresenta l’unica risposta del Nazareno, il bacio sulle labbra del suo persecutore con cui suggella il loro incontro? Quali potrebbero essere stati i pensieri di Yuzaf nel momento in cui, graziato per tale gesto, si diresse verso nuovi orizzonti? Dove sarà andato? Che panorami gli si apriranno? Come esplorerà l’intrico che custodisce l’oggetto della sua ricerca? La reinterpretazione delle Scritture? Il leggìo a nove posizioni?
Mauro Giovanelli – Genova

HANNO SCRITTO PER MAURO GIOVANELLI: Me medesimo, prefazione a “ECCO PERCHÉ JUANITA” Arequipa, Perù, 28 ottobre 2011 – Genova, 27 gennaio 2012 1a Edizione Illeggìoanoveposizioni, 27 gennaio 2012 Volume non in vetrina

Alcune considerazioni su questo lavoro. Due righe su di me.

Potrebbe essere una buona antologia. Oppure una cosa insensata. O una tesi, un componimento, anche una favola. Comunque credo sia una discreta idea. Specialmente quando nasce da un’esigenza che è difficile spiegare. Credo, però, di conoscerne la causa: una memoria eccellente (solo per ciò che trovo interessante) che mi accompagna ovunque. Lo strumento invece sono le buone letture, mie fedeli amiche fin dall’infanzia merito l’educazione ricevuta da mamma, papà e la sorella maggiore. Quindi da “Pinocchio”, “Il capitano di quindici anni” o “Il corsaro nero” piuttosto che “Il barone di Munchausen” e “Il tesoro della Sierra Madre” sono precocemente saltato, usando i punti di appoggio dei Cronin, Vicki Baum e l’indimenticabile “Il villaggio sepolto nell’oblio” di Theodor Kròger, ai Melville, Cervantes, “La saga dei Forsyte” poi ancora “L’amante di lady Chatterley” e tanti altri della famosa superba collana Omnibus Mondadori. Ricordo benissimo quanto ero attratto dalle illustrazioni delle copertine. Approdare poi, in breve tempo, ai Calvino, Cassola, Moravia, Pratolini, Fenoglio, Pavese, seguire le tracce di Hemingway e Caldwell per passare ai “maledetti americani” del calibro dei Ginsberg, Burroughs e Kerouac è stato facile perché inevitabile. I dissociati da questi ultimi, o “seconda generazione”, quelli del tipo Bukovski, Henry Miller, Fante tanto per intenderci, hanno avuto un particolare irresistibile fascino, la mia personalità ne è stata influenzata non poco. Sbarcare sui classici russi, i francesi Camus, Mauriac e Sartre, i tedeschi tipo Gunter Grass, il portoghese Fernando Pessoa, i latino-americani della statura di Márquez, gli ebrei americani alla Philip Roth, i Cormac McCarthy… è stato utile per sfociare infine nella filosofia alla ricerca di risposte impossibili. Per quelli della mia generazione Marcuse è stata una tappa obbligata. Se aggiungo che il 27 febbraio 1945 sono nato a Genova dove risiedo, sono sposato, ho due figlie, due splendide nipotine, Lucrezia e Angelica, ho fatto diversi lavori che in fondo non mi piaceva fare e ho avuto incarichi e mansioni di responsabilità che non avrei voluto avere, ecco che ho anche completato la mia biografia.
Questo non è un libro nel senso stretto del termine, cioè, tanto per restare in tema, una “creazione” nata dall’idea buttata giù dall’estro di una persona che vuole raccontare una storia. Neppure lo classificherei un saggio, anche se gli somiglia. Lo definirei, come dice il sottotitolo, un “arabesco”, un “ordito”, una “mescolanza” dei pensieri di diversi autori che, a mio avviso, hanno affrontato l’unico vero tema sensibile dell’umanità le cui ramificazioni s’intrecciano con la lotta tra il Bene e il Male, la ricerca del destino dell’uomo, il significato della sua presenza in questo immenso spazio, l’enigma del fine ultimo, il rapporto con le Chiese e le religioni imperanti. Tutto quanto visto da angolazioni diverse ma sempre convergenti su questi ossessionanti interrogativi.
La sua “costruzione” non è stata semplice per i motivi che spiegherò più avanti. Per gli autori geniali qui citati è sicuramente meno difficoltoso edificare ex novo partendo dalle fondamenta piuttosto che assemblare perfette opere architettoniche come in questo mio modesto lavoro.
C’erano una volta quattro grandissimi scrittori, Saramago, Bulgakov, France e Dostoevskij, che, fra tutte, hanno composto in particolare quattro opere da sembrare fatte apposta per essere messe in fila una dietro l’altra al solo scopo di realizzare una profezia. Ho ritenuto che la loro unione potesse tradursi in un nuovo Vangelo, ovviamente apocrifo, oppure in un romanzo lungo di fantascienza. La cronologia è perfetta. Allora l’impulso è stato irrefrenabile. Mi si era insinuata una spina nella mente e dovevo assolutamente toglierla. Era maturata in me la convinzione che in un modo o nell’altro gli Autori avessero un comune denominatore che è poi di tutti, compresi quelli che dichiarano di esserne esenti, cioè la ricerca di risposte ai troppi dubbi che la vita impone. Questi quattro scritti, stavo dicendo, sono stati creati apposta per coniugarsi tra loro. Almeno così mi è sembrato. Come se gli ideatori avessero stretto un patto segreto. Congruenti gli accadimenti che vi si narrano, i diversi stili irreprensibili, sublimi, non potevo fare a meno di realizzare l’intreccio. In conclusione: mi erano stati forniti i pezzi per mettere insieme questo gioco d’incastri e ho assolutamente dovuto lavorarci sopra per vedere come sarebbe stata l’opera finita, e poi che occasione unica aver la possibilità di poter mettere in bocca a Dio, Satana e Jeshua le risposte alle domande che ci poniamo. Non avevo alternative. Tra l’altro ne intravedevo l’utilità per il potenziale lettore, come se per lui dovessi posizionare uno scivolo per invogliarlo a calarsi nel mondo della letteratura e filosofia con estrema facilità e renderlo partecipe degli stessi quesiti che questi scritti hanno insinuato nella mia mente. A questo scopo, per dirne una, del vangelo di Saramago ho evitato di citare la grandiosa descrizione dell’incisione del Dürer sulla crocifissione, roba da palati finissimi, per affrontare direttamente il “racconto” vero e proprio. Così, senza preamboli, al fine di catturare da subito l’attenzione e la curiosità dell’anonimo e paziente interlocutore. In generale una “storia” suscita maggiore interesse che l’analisi, eccelsa, di un’opera d’arte. E questa è una vera storia, anzi la storia.
In totale gli scrittori, poeti, registi, filosofi riportati, sono una cinquantina, autentici giganti della cultura mondiale. I quattro che costituiscono la spina dorsale dell’intero percorso già li ho nominati, gli altri, dei quali ho raccolto i riverberi, li incontrerete di volta in volta. Per ciascuno ho riportato i vari riferimenti fin dove la memoria mi ha aiutato. Sto lavorando a questo libro da qualche tempo, adesso che l’ho terminato, mi lascerà un gran vuoto. La “costruzione” ha richiesto diversi aggiustamenti per poter “incastrare” adeguatamente e coerentemente la cronologia e gli avvenimenti narrati nelle opere degli autori che ne costituiscono le fondamenta. Ho dovuto quindi prendermi qualche licenza e tante libertà. In concreto e in ordine sparso:
La conclusione del dialogo tra il cavaliere di ritorno dalle crociate e la morte l’ho adeguata allo spirito di tutta l’impalcatura. Ne “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, Antonius Bloch incarna il secondo e il terzo dei tre paradigmi di uomo teorizzati dalla filosofia di Kierkegaard: l’etica e la religiosità rappresentati in un solo personaggio, il cavaliere appunto. L’esempio del nobile che ha svolto il proprio dovere andando in guerra (etica) si coniuga con la sua forte tensione di ricerca del divino (religiosità) che lo pervade durante il viaggio di ritorno in patria. Egli ha come unico obiettivo il ricongiungimento con la moglie e sfida a scacchi la Morte per rinviare il momento della sua dipartita. Nel nostro racconto si è omesso che per vincere il confronto, la Morte lo inganna due volte, la prima durante la sua confessione: fingendosi un frate, la Morte ottiene dal cavaliere utili informazioni circa la strategia che intenderà adottare per le prossime mosse sulla scacchiera; la seconda quando, con un movimento del suo ampio e nero mantello, scompiglia i pezzi del gioco per ricomporli a suo favore. Invece nel nostro racconto il dialogo dei due personaggi si concentra esclusivamente ai dubbi e tormenti del cavaliere. Mi pare anzi di ricordare che non si faccia alcun cenno della sfida a scacchi tra i due. A incarnare invece il primo dei tre paradigmi di Kierkegaard, cioè l’estetica è Jons, il fido scudiero di Antonius Bloch. Egli è uomo cinico e pragmatico legato alla soddisfazione terrena e al puro godimento fisico. Vuole ottenere il massimo dei piaceri che la vita può concedergli e il suo essere è riassunto nelle parole che esprimono il suo pensiero: “La miapancetta è tutto il mio mondo, la mia testa è la mia eternità, le mie mani due soli meravigliosi, le mie gambe sono i dannati pendoli del tempo, e i miei
piedi sporchi sono le due splendide basi della mia filosofia. Tutto quanto ha esattamente il valore di un rutto, l’unica differenza è che un rutto dà più soddisfazione”. Anche con questo personaggio mi sono preso qualche libertà.
Nei primi due libri, “Il Vangelo secondo Jeshua Cristo” e “Il Maestro e Margherita”, la morte di Giuda di Kiriat avviene in due diversi modi. Intanto in Saramago Giuda non è un traditore bensì esegue un ordine preciso di Jeshua. È lo strumento necessario al completamento del disegno divino. Non prende denari per la delazione, e subito dopo aver compiuto la sua missione, s’impicca a un albero di fico perché non riesce a sopportare il peso di tale macigno. In Bulgakov invece Giuda si vende per trenta tetradracme per essere poi assassinato e rapinato della borsa con il denaro. Per conciliare questi due aspetti rispettando ciò che gli autori hanno concepito ho dovuto fare ricorso a un artificio. Durante il tragitto di Jeshua verso il patibolo, circondato dalle guardie di Erode che lo scortano, l’uomo trovato impiccato all’albero di fico è somigliante a Giuda di Kiriat al punto che Jeshua s’inchina per osservare attentamente il suo volto deturpato. L’artificio ha dovuto anche conciliare le due personalità di Giuda di Kiriat che in Saramago è un fedele discepolo del Cristo mentre in Bulgakov è un uomo normalissimo con tutte le debolezze che gli competono. Altre sono le differenze che si è reso necessario “incastrare” e “adattare” una con l’altra come nell’interrogatorio di Jeshua da parte di Ponzio Pilato e nel colloquio fra Dio, Satana e Jeshua in barca fra le acque del mare di Galata. Nello specifico:

  • In Saramago Jeshua è affisso alla croce con chiodi che gli perforano i polsi nello spazio fra le due ossa (radio e ulna) al contrario di quanto sovente viene raffigurato nell’iconografia classica che vede il Cristo, crocifisso con chiodi conficcati nelle mani. Cosa quest’ultima impossibile anche “tecnicamente” poiché tale sistema non avrebbe consentito che il corpo del condannato potesse essere sorretto senza provocare la completa lacerazione delle stesse. Un’ipotesi è che ciò fosse una crudeltà ulteriore.
  • Il tragitto fino al Golgota è compiuto a piedi. Il mendicante (Satana) lascia la ciotola ai piedi della croce, dove è raccolto il suo sangue dopo averlo dissetato con una spugna imbevuta di acqua e aceto.
  • Personaggi di contorno sono tutti i discepoli.
  • Uno dei tre pastori (Magi) è il diavolo.
    In Bulgakov:
  • Jeshua è affisso alla croce con corde che gli legano le braccia alla traversa del patibolo.
  • Il tragitto fino al Golgota è compiuto su un carro, insieme ai criminali Disma e Hesta, dove sono deposti anche i pali degli strumenti di tortura.
  • È il boia che disseta Jeshua con la spugna prima di finirlo con la lancia.
  • Solo Giuda Iscariota (di Kiriat) e Levi Matteo sono suoi amici e compagni.
  • Levi Matteo s’impossessa di un coltello per tagliare le corde e liberare il corpo di Jeshua dalla croce. Ho dovuto fargli eseguire la stessa operazione sui chiodi con siffatto strumento, evidentemente improprio a tale scopo. Sommando quindi questa complicazione alla fretta, l’ansia e il dolore intimo dell’apostolo, questi nel manovrare l’attrezzo ferisce anche i palmi delle mani del Cristo provocando profonde lacerazioni. Ecco, tra l’altro, come potrebbe essere spiegata la presenza delle stigmate.
  • Amici fedeli di Ponzio Pilato sono Afranio (capo del servizio segreto) e l’Amazzatopi.
  • Nella parte finale del supplizio Levi Matteo porta via il corpo di Jeshua.
    In Anatole France il solo L. Elio Lamia è prezioso e insostituibile collaboratore di Ponzio Pilato.
    In Dostoevskij:
  • Si è eliminato il dialogo tra i due fratelli Ivan e Alesa quindi è rimasto solo il confronto fra Jeshua e il Grande Inquisitore.
  • Alla frase pronunciata dal Grande Inquisitore “il Grande Spirito ti parlò nel deserto” è stato aggiunto “e in mezzo al lago di Galata” per rendere il tutto congruente con il vangelo di Saramago.
    Nel capitolo che fa da “ponte” tra il finale del vangelo di Saramago e l’inizio del Ponzio Pilato di Bulgakov sono evidenziate in corsivo le parti del primo inserite nell’episodio dell’altro e viceversa.
    Tutte le citazioni sono in corsivo tra virgolette e così i “pezzi” di altri autori inseriti nello sviluppo della narrazione vera e propria. Ho inoltre applicato un diverso carattere grafico “normale” a quanto è stato aggiunto dal sottoscritto per poter “modellare” gli incastri tra un autore e l’altro.
    L’illustrazione di copertina è un’opera dell’amico e artista genovese Enrico Bafico che si attaglia perfettamente all’argomento. Le dotte conversazioni fra noi mi hanno dato lo stimolo per comporre quest’arabesco letterario.
    Mauro Giovanelli – Genova, 27 gennaio 2012

Ecco perché… Juanita (spagnolo: Momia Juanita), è il nome di una bella bambina che tra il 1440 e il 1450 d. C. fu sacrificata dai sacerdoti Inca al Dio Apu Illapu (conosciuto anche come Illapa, Ilyap’a, Katoylla) che era il dispensatore della pioggia e del tuono. Un Dio molto importante e venerato dalla gente, dato che la pioggia era fondamentale per la vita. Gli Inca credevano che Apu Illapu prendesse l’acqua della pioggia dalla Via Lattea e la portasse fino a loro. I templi di Apu Illapu solitamente erano situati in luoghi molto elevati. Quando le persone invocavano la pioggia, si arrampicavano fino al tempio e celebravano un sacrificio. In periodi di grande siccità gli erano offerti sacrifici umani. Si riteneva che Apu Illapu agisse in accordo con Apocatequil, il Dio della luce e dei lampi. Si narrava inoltre che, soprattutto in occasione di tempeste molto violente, i due Dèi lavorassero insieme per placarle. La mummia di questa bambina fu rinvenuta vicino alla vetta del Monte Ampato (parte della cordigliera delle Ande), nel Perù meridionale, nel settembre del 1995, dall’antropologo Johan Reinhard e dal collega peruviano Miguel Zarate. L’Ampato è un vulcano delle Ande. La sua vetta raggiunge i 6.288 metri e fa parte di un gruppo di tre grandi stratovulcani, insieme all’Hualca Hualca, 6.050 metri, e al Sabancaya, 6.040 metri.
Nota anche come Signora di Ampato o Ragazza congelata, la piccola Juanita, al momento della sua morte, aveva l’età di circa 12-14 anni.
Tra i molti cerimoniali che si officiavano per quest’offerta, era previsto che la Bambina fosse portata al luogo del rituale da una corte di persone importantissime della regione, essendo attesa e poi ricevuta dal gran sacerdote Inca il quale le avrebbe trasmesso la divinità. Da quel momento la Bambina assumeva la realtà della sua morte e il contatto con gli dèi della montagna, per cui era pronta per il viaggio senza ritorno verso la sua deità. Ci furono grandi festeggiamenti e liturgie. Prima che un colpo sicuro sull’arco sopracciliare destro le provocasse la morte, la bimba fu addormentata. Fu l’eruzione del vulcano Sabancaya, che favorì il disgelo della vetta del vicino Ampato, la causa prima del ritrovamento della mummia, ritenuto una delle più importanti scoperte recenti. La Bella Bambina del vulcano Ampato è oggi mostrata al mondo affinché la scienza e le cognizioni umane traggano profitto dallo studio dei suoi resti ottimamente conservati. Uno scrigno prezioso d’informazioni per ogni disciplina.
Al Museo Santuarios Andinos di Arequipa, mentre osservavo la mummia della piccola Juanita e ascoltavo la spiegazione asettica che la guida dava del suo dramma, ebbi finalmente l’ispirazione per il titolo da dare a questo mio componimento. Ci stavo lavorando da diverso tempo, volevo raccogliere le prove dell’unico, vero e autentico messaggio che i resti di questa bimba ci trasmettono. Esso è nell’affermazione di uno dei più grandi fisici e filosofi della storia:

“Ci sono due cose infinite: l’Universo e la stupidità umana, ma riguardo all’Universo ho ancora dei dubbi…”. Albert Einstein

Mauro Giovanelli, Arequipa, Perù, 28 ottobre 2011

A proposito della follia umana:

“Sia Clark, che ha guidato la spedizione dell’anno scorso nella zona più remota dell’Etiopia settentrionale, sia Tim D. White dell’Università di Berkeley, hanno anche affermato che un riesame condotto su un cranio umano fossile di trecentomila anni fa trovato in precedenza nella stessa regione ha dimostrato che il proprietario era stato scalpato”.
“The Yuma Daily Sun”, 13 giugno 1982

“L’uomo che crede che i segreti del mondo resteranno nascosti per sempre vive nel mistero e nella paura. La superstizione lo trascinerà in basso. La pioggia eroderà gli atti della sua vita. Ma l’uomo che si assume il compito di individuare nell’arazzo il filo che tutto ordisce, in virtù di questa sola decisione si fa carico del mondo, ed è soltanto facendosene carico che egli può trovare il modo di dettare i termini del proprio destino”. Cormac McCarthy

Mauro Giovanelli – Genova

Scrivo a Pasolini, edizione 2022 “cent’anni di Pasolini”

Prefazione

«Il mondo non mi vuole più
e non lo sa.»

(Pier Paolo Pasolini)

Degli anni dell’università, ricordo con chiarezza molti esami ma in particolare la tematica di uno, il corso era “Letteratura italiana moderna e contemporanea” e verteva solo su Pier Paolo Pasolini. A pensarci oggi, mi tornano alla mente diverse situazioni – universitarie e culturali, di più ampio respiro – in cui Pasolini “spuntava fuori” in contesti di divulgazione che allora mi davano la sensazione di “qualcosa d’insolito”. Oggi, leggendo l’opera di Mauro Giovanelli, questo pensiero si è fatto improvvisamente chiaro e, con un po’ di pazienza da parte del lettore, proverò a spiegarlo meglio.
Il Professore ordinario – che, fra l’altro, scriveva anche per “L’Osservatore romano” – cuore nobile, fine e appassionato letterato, a una lezione disse, quasi sconsolato, che dopo Pasolini non esisteva più nulla; aveva da poco presentato un testo sul grande poeta in cui passava in rassegna alcune opere letterarie del Maestro collegandole a quelle cinematografiche, in particolar modo soffermandosi su “Petrolio”, ultimo, discusso, postumo e incompiuto lavoro.
Ricordo con nitidezza la sua pubblicazione, le sue lezioni, e per come mi arrivasse, giovane studentessa, quella che ora potrei chiamare la passione degli incompresi, ossia il cercare di trasmettere un amore – a tratti venerazione – non tanto per un autore e l’eredità che ha lasciato, quanto per le idee, i messaggi che percepivo fossero stati recepiti dal docente alla maniera di un’illuminazione che, a sua volta, avvertiva l’esigenza di diffondere quale discepolo del profeta. Questo pensiero mi sembrò strano, forse eccessivo, non avevo ancora gli strumenti per materializzarlo diversamente (e correttamente). Teniamolo però un attimo da parte, ci tornerò.
Più avanti diedi l’esame, robusto e altrettanto bello, di “Storia e critica cinematografia”, ed ebbi la fortuna di sostenerlo con altro professore emozionato e profondamente amante del suo incarico allo stesso modo del mio primo insegnante. Fra i tanti libri e documenti da visionare era contemplato il monografico su Pier Paolo Pasolini, con le pellicole “La Ricotta”, “Accattone” e “Teorema”. Questi tre film, in diverso modo, mi avevano scosso, lasciandomi una profonda malinconia, percezione di perdita, anzi di smarrimento, come di abbandono, ed avevo faticato a lungo non tanto a capire, quanto a convincermi che potesse essere reversibile, cioè guarire, per come ero profondamente certa, all’epoca, che il riscatto, l’opportunità e il miglioramento fossero veramente alla portata di tutti. Un parallelismo mi ha fatto realizzare, più di quindici anni dopo, che non era il riscatto che dovevo cercare, ma un senso umano vero, che invece profondamente credo possa esistere di là dal contesto sociale. Ci sono arrivata con la visione di “Non essere cattivo” (2015) di Claudio Caligari, film dove, per tanti aspetti, ho ravvisato un filo di connessione proprio con “Accattone”, e non solo per gli scenari di una diversa Roma
di borgata.

Questo apparentemente inutile preambolo, in realtà, dà la dimensione di quanto il testo di Mauro Giovanelli mi abbia colpito accompagnandomi in una riflessione più sincera e matura. Leggendo le sue pagine, infatti, mi è arrivato un dialogo intimo ed emozionante non solo con un letterato, un uomo, bensì con un’entità di pensiero; ho avuto l’esatta sensazione che Mauro Giovanelli arrivasse a Pasolini, ne oltrepassasse la carne e potesse scorgere, come con un terzo occhio in grado di percepire realtà situate oltre la visione ordinaria, un valore nascosto del Poeta, un moto interiore che, attraverso l’Autore, non smette di vivere per tutti.
Lo vedo perché Pasolini, tra le sue parole, non è semplicemente capito o assimilato, neanche solo amato, è scrutato, analizzato, interrogato, contraddetto. È così che si costruiscono i veri e proficui rapporti, non accettando passivamente ma mettendo in dubbio, confrontandosi senza dogmi precostituiti, dunque attraversando a piedi nudi quella landa d’incertezze che abbiamo di fronte.
Ed ecco allora che prende vita un libro che accompagna il lirismo più puro a una prosa riflessiva, arguta, in cui opere diverse procedono su un binario comune, a costruirne uno immaginario di cooperazione divulgativa, perché se è vero che leggendo Pasolini una cosa mi è stata da subito chiara, ossia l’intento non solo di parlare di sé, bensì farsi portavoce, di tanti, dei molti, e di un mondo che si celava nel buio del non visto che, per quanto inesistente agli occhi della borghese quotidianità, prosperava in un mutismo, spesso sofferente, ma altrettanto carnale e viscerale nella sua apparente staticità.
È un dialogo ininterrotto quello che si viene a creare, un rapporto speciale che alcuni hanno la fortuna di provare quando ci si imbatte in un’anima con cui si coglie una sorta di affinità elettiva e che, il più delle volte pur senza saperlo, riesce a dare un’interpretazione al nostro sentire, alla nostra volontà (e necessità di sapere).

Infatti, Mauro Giovanelli sostiene:

«Credo di essere entrato nella mente di Pasolini per il semplice fatto che nel momento in cui ascolto la sua parola essa s’incastra perfettamente al mio ragionare.».

E ancora:

«Ho scritto molto su Pasolini, “Io credo in Pasolini” quasi fosse una preghiera, “Ultimo Messia” per assegnargli la condizione (laica) che gli compete, e altre cose che tengo per me poiché quando gli parlo mi sento libero e non legato a stereotipi, modelli, stampi. Che cosa pagherei per fare una chiacchierata con lui.».

L’intera opera è ricca di questi momenti che elevano ulteriormente il lirismo nascosto pure dalla prosa più cruda, sprezzante, per quanto sempre raffinata, poiché il messaggio che Mauro Giovanelli vuole comunicare è di ben più ampio sguardo, ossia togliere il poeta dalla teca degli sterili idolatranti di Pasolini – sul cui agire per divulgarlo e comprenderlo molto ci sarebbe da dire – e questo proprio per liberarlo e restituirci un’immagine affrancata, non quella iconoclastica che l’ha sostituito, in particolare dopo
la sua morte, tanto discussa ma certamente per i motivi sbagliati, tralasciando quel lavoro fondamentale e del poeta e dell’uomo originario di Bologna ma friulano nelle viscere, che esula da congetture e pettegolezzi.

Più avanti:

«Molti scrittori, direi un’infinità, si sono dedicati a scrivere in merito alla morte di Pasolini, innumerevoli le ipotesi al riguardo, comunque l’alone di mistero che circonda questo grave delitto persiste fitto sull’immagine del suo cadavere martoriato. Fra l’altro non si è mai arrivati a qualcosa di concreto. In questo mio lavoro, all’opposto, considero il suo massacro ineluttabile, scritto nelle pagine del destino, cioè “dovuto” affinché alla sua figura, l’ingegno e il carico sociale di cui si fece paladino, sia assegnata la condizione di Messia, l’ultimo, un predestinato al martirio, come Gesù di Nazareth e altri profeti.».

Qui torniamo a quella riflessione iniziale sul riconoscere un profeta. Credo che profeta possa significare molte cose, che vanno oltre il senso meramente religioso, è quella capacità di essere guida pur senza saperlo e volerlo, perché con la parola, la propria arte e con la propria esistenza si diventa faro, messaggio assoluto, e credo sia questo l’elemento che Mauro Giovanelli riconosce in Pier Paolo Pasolini, perché avvertiamo che il poeta sia vissuto e continua a essere tra noi per tramandare un ufficio importante, non potendo tenere scisso il suo piano quotidiano da quello emozionale e creativo. È una fusione
centralizzante che, credetemi, non è scontata né di facile
gestione. Nelle parole accorate che in più punti l’autore
rivolge allo scomparso scrittore, c’è proprio questa immensa forza prorompente, questo cercare, scavare senza
sosta, e sempre al massimo della volontà, perché essa ci permette di lambire lidi sconosciuti, amare nella sofferenza e farne tesoro, bellezza, insegnamento, amore.

Ecco che:

«Dunque tu chi sei Pasolini? Perché ti soffermi a declamare una tragedia tra le quinte di un palcoscenico inesistente? Quanto sono tese le tue corde? Dove potrebbe arrivare la sensibilità di cui ti nutri a ogni istante?».

Concludiamo proprio con questo climax interrogativo dell’Autore perché non potrebbe essere altrimenti, perché solo nel porsi domande continuamente – domande vere e spesso scomode – non spegneremo mai la fiamma della vera conoscenza.

The Editors

“Scrivo a Pasolini”

di Mauro Giovanelli

Prefazione

«Il mondo non mi vuole più
e non lo sa.»
(Pier Paolo Pasolini)

Degli anni dell’università, ricordo con chiarezza molti esami ma in particolare la tematica di uno, il corso era “Letteratura italiana moderna e contemporanea” e verteva solo su Pier Paolo Pasolini. A pensarci oggi, mi tornano alla mente diverse situazioni – universitarie e culturali, di più ampio respiro – in cui Pasolini “spuntava fuori” in contesti di divulgazione che allora mi davano la sensazione di “qualcosa d’insolito”. Oggi, leggendo l’opera di Mauro Giovanelli, questo pensiero si è fatto improvvisamente chiaro e, con un po’ di pazienza da parte del lettore, proverò a spiegarlo meglio.
Il Professore ordinario – che, fra l’altro, scriveva anche per “L’Osservatore romano” – cuore nobile, fine e appassionato letterato, a una lezione disse, quasi sconsolato, che dopo Pasolini non esisteva più nulla; aveva da poco presentato un testo sul grande poeta in cui passava in rassegna alcune opere letterarie del Maestro collegandole a quelle cinematografiche, in particolar modo soffermandosi su “Petrolio”, ultimo, discusso, postumo e incompiuto lavoro.
Ricordo con nitidezza la sua pubblicazione, le sue lezioni, e per come mi arrivasse, giovane studentessa, quella che ora potrei chiamare la passione degli incompresi, ossia il cercare di trasmettere un amore – a tratti venerazione – non tanto per un autore e l’eredità che ha lasciato, quanto per le idee, i messaggi che percepivo fossero stati recepiti dal docente alla maniera di un’illuminazione che, a sua volta, avvertiva l’esigenza di diffondere quale discepolo del profeta. Questo pensiero mi sembrò strano, forse eccessivo, non avevo ancora gli strumenti per materializzarlo diversamente (e correttamente). Teniamolo però un attimo da parte, ci tornerò.
Più avanti diedi l’esame, robusto e altrettanto bello, di “Storia e critica cinematografia”, ed ebbi la fortuna di sostenerlo con altro professore emozionato e profondamente amante del suo incarico allo stesso modo del mio primo insegnante. Fra i tanti libri e documenti da visionare era contemplato il monografico su Pier Paolo Pasolini, con le pellicole “La Ricotta”, “Accattone” e “Teorema”. Questi tre film, in diverso modo, mi avevano scosso, lasciandomi una profonda malinconia, percezione di perdita, anzi di smarrimento, come di abbandono, ed avevo faticato a lungo non tanto a capire, quanto a convincermi che potesse essere reversibile, cioè guarire, per come ero profondamente certa, all’epoca, che il riscatto, l’opportunità e il miglioramento fossero veramente alla portata di tutti. Un parallelismo mi ha fatto realizzare, più di quindici anni dopo, che non era il riscatto che dovevo cercare, ma un senso umano vero, che invece profondamente credo possa esistere di là dal contesto sociale. Ci sono arrivata con la visione di “Non essere cattivo” (2015) di Claudio Caligari, film dove, per tanti aspetti, ho ravvisato un filo di connessione proprio con “Accattone”, e non solo per gli scenari di una diversa Roma
di borgata.

Questo apparentemente inutile preambolo, in realtà, dà la dimensione di quanto il testo di Mauro Giovanelli mi abbia colpito accompagnandomi in una riflessione più sincera e matura. Leggendo le sue pagine, infatti, mi è arrivato un dialogo intimo ed emozionante non solo con un letterato, un uomo, bensì con un’entità di pensiero; ho avuto l’esatta sensazione che Mauro Giovanelli arrivasse a Pasolini, ne oltrepassasse la carne e potesse scorgere, come con un terzo occhio in grado di percepire realtà situate oltre la visione ordinaria, un valore nascosto del Poeta, un moto interiore che, attraverso l’Autore, non smette di vivere per tutti.
Lo vedo perché Pasolini, tra le sue parole, non è semplicemente capito o assimilato, neanche solo amato, è scrutato, analizzato, interrogato, contraddetto. È così che si costruiscono i veri e proficui rapporti, non accettando passivamente ma mettendo in dubbio, confrontandosi senza dogmi precostituiti, dunque attraversando a piedi nudi quella landa d’incertezze che abbiamo di fronte.
Ed ecco allora che prende vita un libro che accompagna il lirismo più puro a una prosa riflessiva, arguta, in cui opere diverse procedono su un binario comune, a costruirne uno immaginario di cooperazione divulgativa, perché se è vero che leggendo Pasolini una cosa mi è stata da subito chiara, ossia l’intento non solo di parlare di sé, bensì farsi portavoce, di tanti, dei molti, e di un mondo che si celava nel buio del non visto che, per quanto inesistente agli occhi della borghese quotidianità, prosperava in un mutismo, spesso sofferente, ma altrettanto carnale e viscerale nella sua apparente staticità.
È un dialogo ininterrotto quello che si viene a creare, un rapporto speciale che alcuni hanno la fortuna di provare quando ci si imbatte in un’anima con cui si coglie una sorta di affinità elettiva e che, il più delle volte pur senza saperlo, riesce a dare un’interpretazione al nostro sentire, alla nostra volontà (e necessità di sapere).

Infatti, Mauro Giovanelli sostiene:

«Credo di essere entrato nella mente di Pasolini per il semplice fatto che nel momento in cui ascolto la sua parola essa s’incastra perfettamente al mio ragionare.».

E ancora:

«Ho scritto molto su Pasolini, “Io credo in Pasolini” quasi fosse una preghiera, “Ultimo Messia” per assegnargli la condizione (laica) che gli compete, e altre cose che tengo per me poiché quando gli parlo mi sento libero e non legato a stereotipi, modelli, stampi. Che cosa pagherei per fare una chiacchierata con lui.».

L’intera opera è ricca di questi momenti che elevano ulteriormente il lirismo nascosto pure dalla prosa più cruda, sprezzante, per quanto sempre raffinata, poiché il messaggio che Mauro Giovanelli vuole comunicare è di ben più ampio sguardo, ossia togliere il poeta dalla teca degli sterili idolatranti di Pasolini – sul cui agire per divulgarlo e comprenderlo molto ci sarebbe da dire – e questo proprio per liberarlo e restituirci un’immagine affrancata, non quella iconoclastica che l’ha sostituito, in particolare dopo
la sua morte, tanto discussa ma certamente per i motivi sbagliati, tralasciando quel lavoro fondamentale e del poeta e dell’uomo originario di Bologna ma friulano nelle viscere, che esula da congetture e pettegolezzi.

Più avanti:

«Molti scrittori, direi un’infinità, si sono dedicati a scrivere in merito alla morte di Pasolini, innumerevoli le ipotesi al riguardo, comunque l’alone di mistero che circonda questo grave delitto persiste fitto sull’immagine del suo cadavere martoriato. Fra l’altro non si è mai arrivati a qualcosa di concreto. In questo mio lavoro, all’opposto, considero il suo massacro ineluttabile, scritto nelle pagine del destino, cioè “dovuto” affinché alla sua figura, l’ingegno e il carico sociale di cui si fece paladino, sia assegnata la condizione di Messia, l’ultimo, un predestinato al martirio, come Gesù di Nazareth e altri profeti.».

Qui torniamo a quella riflessione iniziale sul riconoscere un profeta. Credo che profeta possa significare molte cose, che vanno oltre il senso meramente religioso, è quella capacità di essere guida pur senza saperlo e volerlo, perché con la parola, la propria arte e con la propria esistenza si diventa faro, messaggio assoluto, e credo sia questo l’elemento che Mauro Giovanelli riconosce in Pier Paolo Pasolini, perché avvertiamo che il poeta sia vissuto e continua a essere tra noi per tramandare un ufficio importante, non potendo tenere scisso il suo piano quotidiano da quello emozionale e creativo. È una fusione
centralizzante che, credetemi, non è scontata né di facile
gestione. Nelle parole accorate che in più punti l’autore
rivolge allo scomparso scrittore, c’è proprio questa immensa forza prorompente, questo cercare, scavare senza
sosta, e sempre al massimo della volontà, perché essa ci permette di lambire lidi sconosciuti, amare nella sofferenza e farne tesoro, bellezza, insegnamento, amore.

Ecco che:

«Dunque tu chi sei Pasolini? Perché ti soffermi a declamare una tragedia tra le quinte di un palcoscenico inesistente? Quanto sono tese le tue corde? Dove potrebbe arrivare la sensibilità di cui ti nutri a ogni istante?».

Concludiamo proprio con questo climax interrogativo dell’Autore perché non potrebbe essere altrimenti, perché solo nel porsi domande continuamente – domande vere e spesso scomode – non spegneremo mai la fiamma della vera conoscenza.

The Editors

Il leggìo a nove posizioni

Mauro Giovanelli
Titolo: “Il leggìo a nove posizioni”
Codice ISBN: 978-88-6206-695-2
© 2019 Vertigo Edizioni s.r.l., Roma
www.vertigoedizioni.it info@vertigoedizioni.it
I edizione giugno 2019
ISBN 978-88-6206-695-2
Edizioni VERTIGO collana APPRODI
In copertina: Il leggìo di Fulvio Leoncini, tecnica disegno, tempera e digital painting su tavola, dimensioni cm. 22,5×21, collezione Mauro Giovanelli
Distribuzione per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

Prefazione

Yuzaf non è asceso al cielo come c’è raccontato. In cerca di una risposta impossibile, almeno quanto lo sarebbe stato il dubbio che lo avrebbe colto durante il supplizio, lamentando l’abbandono del Padre, ha invece continuato a vagare tra le dimensioni del reale e del fantastico. Questa la sua missione, la croce alla quale sembra condannato dalla stessa natura di cui è composto, che gli fa incontrare altri “inverosimili” come lui: Corto, Srinivasa, Ramòn, Judex, dando vita a una ratatouille filosofica in salsa spirituale, insaporita con un melting pot delle migliori spezie antropologiche, raccolte dall’Autore ai crocevia della vicenda umana, nella sua mente, lungo le sconfinate praterie dell’investigazione fantastica…
Bene e Male, Divino e Umano, sono le invisibili sbarre della gabbia di Mānī che imprigionano il pensiero di Yuzaf nella speculazione dell’Oltre, lo costringono a surreali dialoghi con personaggi della storia e della fantasia che cucineranno a fuoco lento le convinzioni del lettore fino a dissolverle con la sola spiegazione alla nostra portata. Le molecole letterarie dell’opera sembrano formate da atomi privi di legami, gli elettroni saltano dall’orbita di un nucleo all’altro, collidono, rilasciano quanti di energia che riempiono di tracce luminose l’etere della narrazione: preziose indicazioni che, per il lettore attento e motivato dalla ricerca terrena e spirituale, rappresentano la segnaletica del sentiero che conduce a concepire l’inspiegabile. La ricostruzione storica e filosofica della religione sotto l’aspetto di “urgenza esistenziale” è accurata, onesta, priva d’intenzionalità alcuna di negare o affermarne l’esattezza, lasciandoci liberi di manovrare il leggìo a nostro piacimento per interpretare i manoscritti che su esso si alternano e incrociare lo sguardo del topo al fine di rispondere come possiamo a una domanda priva di senso: “Qual è la verità?”.

Alessandro Arvigo (Alex), Palermo (Italia)

Premessa

Questo racconto è la naturale prosecuzione di “Ecco perché Juanita”, antologia elaborata molto tempo fa (prima o poi dovrò rimetterci mano riproponendola alla stampa), certamente originale nella composizione al punto che non trovavo termini adatti a definirla. Per descriverne la “costruzione” decisi di utilizzare il verbo “comporre” vale a dire “mettere insieme varie parti allo scopo di costituire un tutto organico”(1) ovvero “produrre, realizzare un’opera di carattere letterario o artistico in generale”(2). Conclusi che il termine più adeguato a designarla fosse proprio “libro” intendendosi con tale parola “volume di fogli cuciti tra loro, scritti, stampati o bianchi”(3). Desidero ricordare che la parola “bibbia” significa insieme di generi letterari diversi. Non è casuale che “biblia”, dal greco “biblos” (corteccia interna del papiro che cresce sul delta del Nilo utilizzata per produrre materiale scrittoio) sia un plurale che indica l’insieme di opere scritte e narrate (nella Chiesa greca dell’epoca di Giovanni Crisostomo(4) si cominciò a usare l’espressione “Ta Biblìa”, che significa “I libri”). Infatti, il Vecchio e Nuovo Testamento sono compendi di elaborati vari per origine, genere, compilazione, lingua e datazione, prodotti in un periodo abbastanza ampio, preceduti da tradizione orale difficile da identificare, racchiusi in un canone stabilito dagli inizi della nostra era. In parole povere la prima grande raccolta, copiatura e forse pure sofisticazione della storia.
Tornando a “Juanita” dico che l’idea della sua realizzazione s’insinuò nella mia mente quando decisi di riunire diversi e preziosi frammenti della letteratura (sottotitolo “arabesco letterario”) di circa cinquanta autori e un centinaio di brani e citazioni disponendoli all’interno di una narrazione secondo il mio gusto. Occorreva solo la base di appoggio. Quale migliore “cronologia” potrebbero regalarci altri capolavori che non siano “Il Vangelo secondo Gesù Cristo” del grande Saramago, seguito da “Il Maestro e Margherita” di Bulgakov per agganciarlo a “Il Procuratore della Giudea” di France e concludere con “Il Grande Inquisitore” di Dostoevskij? Nessuna. Un’avventura lunga 1700 anni.

Saramago descrive la vita di Gesù con un’autenticità da lasciare senza fiato, ineguagliabili lo stile e la prosa. Nel suo Vangelo neppure è sfiorata la personalità di Ponzio Pilato perché marginale al messaggio che l’autore ci ha compiutamente trasmesso. Per approfondirne la figura siamo quindi costretti a immergerci nelle strabilianti pagine di Bulgakov dove il procuratore della Giudea è assalito dal rimorso per una condanna decretata suo malgrado; la collera verso se stesso lo dilania, realizza di essere entrato nel mito dalla porta sbagliata e la sua ignavia (qui ci sarebbe da discutere) lo inchioderà per sempre nella penombra del porticato, dietro la brocca del servitore che versa l’acqua sulle sue mani sudate. Che ne sarà di lui? Allora lo seguiamo nell’epico “Il procuratore della Giudea” di Anatole France dove, vecchio e dolorante, si reca ai Campi Flegrei per curare la gotta che lo tormenta. I tempi del fasto e del potere li ricorda con il fedele e ritrovato Lamia che, riferendosi al Cristo, gli chiede: “Ponzio, ti ricordi di quest’uomo?” ed egli “Gesù? Gesù il Nazareno? No, non ricordo”(5). Non ricordo… Perché? Amnesia senile? Inconscia rimozione di una rievocazione ostica? Menzogna? Indulgenza divina? Non lo sapremo e il Gesù de “I fratelli Karamazov” di Dostoevskji(6), che chiude il mio saggio, non dice alcunché in proposito. Essendo stato vano il sacrificio estremo, Egli torna in questo mondo per riparare l’errore sennonché, riconosciuto e incarcerato dal Grande Inquisitore, non pronuncia una sillaba durante l’eccitazione verbale dell’aguzzino che a sera si reca nella cella per comunicargli la condanna al rogo. Il confronto tra i due si trasforma in un delirante monologo del prelato. Che cosa rappresenta l’unica risposta del Nazareno, il bacio sulle labbra del suo persecutore con cui suggella il loro incontro? Quali potrebbero essere stati i pensieri di Yuzaf nel momento in cui, graziato per tale gesto, si diresse verso nuovi orizzonti? Dove sarà andato? Che panorami gli si apriranno? Come esplorerà l’intrico che custodisce l’oggetto della sua ricerca?
La reinterpretazione delle Scritture? Il leggìo a nove posizioni?

NOTE:
(1) Zingarelli, undicesima edizione 1983.
(2) Ĭbīdem.
(3) Ĭbīdem.
(4) Giovanni Crisostomo, o Giovanni d’Antiochia (Antiochia, 344/354 – Comana Pontica, 14 settembre 407), è stato un arcivescovo e teologo bizantino. Fu il se- condo Patriarca di Costantinopoli. È commemorato come santo dalla Chiesa cattolica e ortodossa e venerato dalla Chiesa copta; è uno dei 35 Dottori della Chiesa.
(5) Anatole France, Il procuratore della Giudea, Sellerio Editore Palermo.
(6) Fëdor Dostoevskji, I fratelli Karamazov, Libro quinto, “Pro e contra”, Edizione Einaudi.